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I quesiti intorno all’origine e il senso dell’arte sono tanto vecchi quanto l’arte stessa. Tra le spiegazioni ed i tentativi più recenti di trovare una risposta a questi quesiti, l’approccio strutturalista com’è stato sviluppato da Claude Lèvi-Strauss nel suo libro, che è diventato ormai un classico « Il pensiero selvaggio » (La pensèe sauvage), è quello che ha sollecitato maggiormente il dibattito ed anche tutta una serie di appunti critici. Egli afferma infatti che l’arte si trova a metà strada tra la conoscenza scientifica ed il pensiero mitico e magico, perché con  procedimenti artigianali produce un oggetto materiale che è nello stesso tempo l’oggetto della conoscenza. Questa affermazione è essenzialmente tautologica perché la conoscenza scientifica è evidentemente conoscenza empirica dell’oggetto, mentre l’oggetto è un oggetto naturale che attraverso la conoscenza (la classificazione) diventa oggetto trascendentale: l’arte è dunque il segno per il proprio oggetto. Essenziale nell’arte è dunque ciò che l’estetica definisce attraverso il proprio modo empirico di porre quesiti. Questo modo di porre quesiti si manifesta – da questo punto di vista – come mezzo di proiezione del modello estetico nell’opera d’arte, nella struttura concreta e sensibile della formulazione artistica.
La scultura è indubbiamente quel genere artistico dove l’aspetto oggettuale, sensibile e percepibile, è più evidente che in qualsiasi altra articolazione del discorso artistico. Secondo la tradizione, alla quale l’uomo contemporaneo si rivolge sempre di nuovo, è ad Ulisse che tra i mortali bisogna attribuire il primo atto di scultura. Conficcando il remo nella tomba del suo defunto amico, il marinaio Elpinore (Odissea, XI, 51-83), egli ha motivato la scultura come segno e significante. La funzione di un oggetto semplice e d’uso comune  improvvisamente cambiata: esso è diventato il segno della persona e del suo percorso esistenziale, segno per conservare la sua memoria nello spazio dove è finito il suo pellegrinaggio. Contrassegnando l’ultima dimora del compagno morto con un semplice gesto – le cui conseguenze erano meramente materiali – Ulisse ed i suoi amici hanno strappato Elpinore all’oblio. Da allora la scultura – sia che essa rappresenti una figura umana, sia nel caso che sia stilizzata fino al limite e ridotta ad un intervento elementare nello spazio – è un modo del tutto particolare per lottare contro il Tempo distruttore di tutte le cose, contro il Nulla e la Sparizione. Essa è dunque un continuo contraddire la Morte. Le opere dell’intelletto e delle mani dell’uomo, che devono fermare l’attimo ed allungarlo nella durata, sono un modo di affermare continuamente la vita anche se soltanto con mezzi così fragili come può esserlo un segno commemorativo, segno che collega il passato ed il presente, ciò che è scomparso e ciò che ha da venire. Perciò è del tutto logico che la scultura sia così fortemente legata alla tradizione, che in essa prendano corpi gli archetipi più originari, indipendentemente dall’espressione scelta da ogni singolo scultore, dal materiale con cui egli realizza le proprie idee ed indipendentemente da ciò che egli vuole comunicare ai propri contemporanei e alle generazioni che seguiranno.
Affrontando l’opera estremamente vasta e varia dell’artista friulano Giorgio Celiberti, abbiamo certamente l’occasione di verificare proprio questo, e cioè la verità dell’arte che scaturisce dalle radici esistenziali più profonde. Celiberti, un artista completamente votato al proprio lavoro, sfugge ad una classificazione riduttiva in correnti, scuole, movimenti e indirizzi all’interno della definizione categorica del modernismo, una classificazione che è un espediente molto frequente della critica d’arte predominante. Egli ha rifiutato il sistema ormai manierista e tedioso dell’« imparare il mestiere », che più o meno caratteristico di tutte le accademie d’arte. Venendo a conoscenza delle esperienze delle avanguardie storiche e delle leggi del linguaggio artistico più recente egli ha sempre fatto affidamento soprattutto sul suo istinto la sua sensibilità, sulla propria originaria necessità di esprimersi, sulla trasportazione diretta delle proprie sensazioni, delle proprie esperienze e osservazioni in un’adeguata forma artistica che però non è mai stata fine a se stessa, ma a sempre funzionato come forma di un contenuto. Con eguale forza egli ha saputo esprimersi nella scultura, nella grafica e nella pittura. Le sue immagini nascevano e nascono ancora come una catena ininterrotta di suggestioni visive che si ispirano contemporaneamente al processo del proprio divenire ed al mondo esterno. Questi diversi linguaggi sono accomunati da un aspetto formale puro che Celiberti interpreta in modo magistrale, essi sono accomunati da un linguaggi specifico di segni che sostengono i significati, essi trascendono le stesse formulazioni artistiche.
A fondare la scultura di Celiberti sono soprattutto due stimoli che riassumono in modo convincente il contesto della sa riflessione artistica: la scrittura e lo spazio. La scultura, essendo tra le arti visive il genere più concretamente percepibile, deve attivare lo spazio reale nel quale è posta e va dunque da sé che essa funzionerà diversamente in uno spazio naturale, nel paesaggio, che non invece in un ambiente chiuso, asettico e sterile di una galleria o di un museo. Le stele monumentali di Celiberti, per il loro aspetto più assimilabile alla definizione dell’origine mitica della scultura a cui abbiamo accennato all’inizio, hanno i loro predecessori nell’antichità. La stele, in cui venivano accentuati la verticalità ed il simbolismo implicito in essa, era inizialmente efficace soprattutto frontalmente, mentre la scultura contemporanea non mimetica è riuscita a scavalcare il suo condizionamento narrativo: l’estetica del segno e delle sue interpretazioni strutturali è cambiato molto anche da questo punto di vista, Celiberti parte evidentemente da questo presupposto, immanente nel linguaggio plastico moderno. Egli cerca di stimolare lo spettatore con le proporzioni, con il ritmo della crescita, con la tensione e la materialità della superficie, alternando i volumi positivi e negativi. La forma fondamentale delle sue opere è il rettangolo dal margine tagliente, all’interno del quale si susseguono perforazioni che danno l’effetto di una scrittura non ancora codificata, piccole ed irregolari ripetizioni del rettangolo in negativo, nel vuoto – ma questo vuoto è significativo, attraverso di esso viaggia lo sguardo che desidera vedere quel « dietro » nascosto, il colore presentito del paesaggio o dell’interieur.
Queste sculture addirittura mobilitano lo spettatore, lo incoraggia a muoversi, lo invitano a girare loro intorno, stimolano il suo desiderio di scoprire cosa c’è dall’altra parte. L’effetto interattivo del segno scultoreo è infatti diventato una qualità obbligata della scultura di Celiberti nella fase in cui l’artista si è liberato dal dettato del modello narrativo-mimetico ed ha definito la propria espressività con strutture plastico-spaziali tali, che pongono il proprio significato già con la propria fenomenologia originaria ovverossia suggeriscono continuamente il trapasso dallo spazio fisico allo spazio spirituale.
Questo trapasso dal contrasto all’armonia, di fisico e spirituale, è una delle caratteristiche fondamentali della scultura di Celiberti. Chi conosce le diverse fasi del suo sviluppo artistico ricorderà senz’altro che l’artista ha sempre cercato la convivenza tra piacere visivo generato dalla presenza sensibile dell’opera d’arte ed un contenuto più profondo, per così dire nascosto, al quale riusciamo ad arrivare appena con la contemplazione, con l’immedesimazione nella dimensione trascendentale della creazione artistica. Questa convivenza l’ha cercata non soltanto nella scultura monumentale, ma anche nella scultura intimistica di piccole dimensioni ed in quelle opere che rappresentano un legame organico tra la sua pittura e l’espressione spaziale (la serie dei « Muri » e dei « Sigilli »). Nei « Muri », segmenti a rilievi di un’immaginaria molteplicità di pareti, si concretizza attraverso un processo di ripetizione un ordine singolare e nascosto, una logica sintattica delle leggi e dalle regole particolari, in modo che la disposizione consecutiva di unità visive che attraversano i muri si mostra come un’iscrizione pietrificata.
Come una « tavola delle leggi » scolpita dall’artista-demiurgo con l’intenzione di annotare ciò che non è esprimibile a parole. Ma in queste tavole non c’è alcuna gerarchia di valori, non ci sono il primo, il secondo o il terzo « comandamento », ogni parte della superficie visibile (recante la « scrittura ») è egualmente importante nella strutturazione dell’insieme – se non si considera l’inevitabile lontananza del « testo » dal margine che incornicia l’iscrizione. L’alternanza tra la penetrazione del rilievo nello spazio e le sottili scanalature a graffito forma una « maglia » omogenea dell’immagine che risucchia il nostro sguardo e scatena processi associativi nella nostra coscienza – il muro nell’interpretazione di Celiberti infatti non esclude lo spettro connotativo contenuto nella sua definizione concettuale. I muri secondo la spiegazione tradizionale sono un anello di difesa che chiude un certo modo e lo separa dalle influenze esterne. Il muro è dunque il simbolo della separazione, è anche una barriera psicologica che pone la differenza tra ciò che sta dentro e ciò che sta fuori, tra il generale, l’indefinito ed il particolare, il privilegiato; è una comunicazione interrotta che ha due conseguenze: difende e tutela, ma pure chiude e separa. Ma questo simbolismo si può ribaltare in un attimo: il muro è fondamento universale, porta e conserva dentro di sé le comunicazioni, i segni e le figure che vi sono state scolpite, li eterna con la propria fermezza e con la propria durevolezza li trasmette alle generazioni successive; per se stesso è passivo ed è per questo che chiama la mano del creatore – la mano dell’inventore dei segni che interverrà su di lui con la suggestività della propria scrittura, lo conquisterò con la forza della propria volontà enunciativa. Celiberti è indubbiamente un inventore di scritture, un contemporaneo scriptor ed auctor nello stesso tempo, « scrivano » e « legislatore » che inventa semplicemente un testo e contemporaneamente gli dà il proprio sigillo.
Le terrecotte di Celiberti concretizzano in questo senso la metafora che ci viene suggerita dai « Muri ». Queste iscrizioni nell’argilla sembrano prese da un’archeologia immaginaria. A volte riprendono le formule strutturali dei muri, a volte ripetono lineamenti zoomorfi e antropomorfi che apparivano già nei cicli figurativi di Celiberti. L’artista che disegna questi segni è qui il grande mago, l’alchimista e l’iniziatore che attraverso una forma concreta enuncia se stesso, ma che nelle proprie enunciazioni è anche sempre generalmente umano. L’addensamento di esperienze della storia e della mitologia, delle religioni e delle riflessioni mistiche, di tutti gli indirizzi filosofici e di civiltà in modelli archetipici è infatti la base di quel modo di pensare creativo che merita l’appellativo di « artistico ». Il segno reinventato è in ultima conseguenza comunque una ripetizione del… originario, è una ripetizione dell’origine mitologica della scrittura, dell’azione del dio Set che ha sfracellato Osiris e gettato tutt’intorno i pezzetti del suo corpo. Celiberti, come uomo di cultura, ha con le proprie iscrizioni nella pietra e nell’argilla affermato la propria appartenenza alla tradizione, nella quale l’immaginario personale fa integralmente parte di quella memoria collettiva guidata dalla stessa necessità conoscitiva e delle stesse spinte inconscie.
Sembra che Celiberti abbia posto la propria esperienza di scultore proprio in questa direzione. La grande mostra delle suo opere a Trieste – le stele monumentali in centro città, la scultura in bronzo al castello di San Giusto e le sculture in pietra nel parco di Miramare – aperta dal maggio del 1984 all’aprile del 1985, come anche la presentazione delle sue opere nelle ville venete da giugno ad ottobre del 1985, e la retrospettiva al castello di Udine ed al Centro Friulano Arti Plastiche dell’autunno del 1985 alla primavera del 1986 hanno indubbiamente mostrato come il suo linguaggio plastico si sia sviluppato gradualmente dal figurativo che ancora lo legava ad un espressionismo particolare di tipo narrativo alle formulazioni non mimetiche nelle quali si è affermato come un visionario del tutto particolare che dopo varie esperienze ha trovato un linguaggio artistico originale adeguato al proprio tempo ed alla propria sensibilità. Questa espressione potremmo identificarla con la statuarietà alla quale danno corpo – per la loro qualità più evidente – soprattutto le stele queste portatrici eleganti di una risonanza verticale che conficcandosi verticalmente nello spazio danno vita ad un corpo nuovo, diverso dal nostro, che dovrebbe essere la misura di tutte le cose. Esse non sono parenti delle colonne che appartengono al linguaggio dell’architettura, non sono simulazioni di elementi la cui realtà esistenziale si troverebbe al di fuori della realtà della scultura. Al contrario, in esse è contenuta solo l’essenza della scultura. Ciò avviene in modo estremamente moderno, con una dimensione che va al di là della loro plasticità. In esse infatti sentiamo il suono, la musica, il mormorìo, quel pronunciamento dell’indicibile che ci viene insegnato dalla saggezza dello zen. La pietra ed il bronzo sono veramente muti, addirittura paurosi nel loro silenzio, ma a colui che li sa ascoltare essi si trasformano – sotto lo scalpello dello scultore e con il lavoro delle sue mani – in un libro aperto che possiamo non soltanto leggere, ma anche sentire come la voce di un narratore assente. Esprimere le stele di Celiberti significa nello stesso tempo viaggiare attraverso la storia della scultura di tutti i tempi e di tutte le civiltà, scorgere le immagini che abitano l’Isola di Pasqua, in India, in Giappone, sulle facciate delle cattedrali e nei segreti paraggi della necropoli, significa porsi in ascolto della Parola sacra nelle sinagoghe ed inchinarsi di fronte alla memoria di tutti coloro che hanno lasciato un’impronta alla loro dipartita nell’aldilà. C’è qualcosa di sacro in esse, sebbene non alludano con alcun segno concreto al repertorio simbolico di questa o quell’altra religione. Con loro lo spazio diventa evento, un analogo della scultura al biblico « la parola divenne carne », al suono indù « om » che è l’unificazione di ciò che sta fuori con ciò che sta dentro, alla negazione buddista del corpo attraverso l’incarnazione perfetta. Nello stesso modo in cui Celiberti ci restituisce l’origine mitica e magica della scultura egli ci introduce anche al sublime, nell’area delle rappresentazioni dove l’impulso sensibile sollecita la vibrazione spirituale. La sua non è una scultura di masse e volumi, non è a ricerca della scultura con i mezzi della sola scultura. Più che l’opera di qualsiasi altro suo contemporaneo è opera della memoria, è una variante contemporanea di quel remo che Ulisse conficcò nella tomba di Elpinore, è innalzare la vita contro la presenza totalizzante della Morte.
« Exegi monumentum aere perennis » annotava parecchi secoli fa il poeta romano; le sculture di Celiberti – stavolta esposte alla Villa Varda e nel suo meraviglioso parco – sono di argilla, di bronzo ed in pietra. Ma la loro durata non è assicurata dalla materia della quale sono fatte, ma piuttosto dall’amore che l’artista vi ha ispirato – con l’amore per tutte le creature con le quali vive ed alle quali è debitore della propria umanità. In questa dimensione è la loro forza, in questa consapevolezza dell’umano, che non può e non deve morire, sta la loro bellezza.

Brane Kovič

(Storia, Memoria e Vita, in Celiberti. I segni dell'anima, catalogo della mostra, Brugnera, Villa Varda)

 

 

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